“Dove credi di andare? Chi ci farà la minestra ora?” sibilò il marito furioso.

Cristina posò la tazza sul tavolo e rispose con calma:

“Me ne vado, Ale.”

Nella stanza scese un silenzio pesante. Persino la televisione, che di solito brontolava in sottofondo, sembrò spegnersi, avvertendo la tensione. Alessandro si girò lentamente, come in un filmato al rallentatore.

“Ma sei impazzita? E chi farà da mangiare?” mormorò con voce tremante, fissandola come se avesse annunciato la fine del mondo.

Lei era in piedi sulla soglia della cucina, con una borsa piena di documenti. C’erano dentro le copie dei suoi diplomi, la conferma del nuovo lavoro e, soprattutto, il contratto d’affitto dell’appartamento che aveva preso in affitto per sei mesi. In un altro quartiere. In un’altra vita. In un’altra versione di se stessa.

Le sue parole rimasero sospese nell’aria come una nuvola di polvere. Lui indossava una maglietta consumata, si grattava il tallone con l’altro piede e stringeva il telecomando. Una sera come tante, identica a centinaia di altre negli ultimi dieci anni. Solo che per Cristina era l’ultima.

Una volta erano saliti sul treno Napoli-Roma, sulle cuccette superiori. Ridevano, mangiando panini comprati alla stazione. Alessandro raccontava barzellette e le sfiorava le dita passandole il caffè. Cristina rideva di cuore: era il loro primo viaggio da soli dopo tanto tempo, e i figli erano rimasti con la nonna.

Guardava dal finestrino e pensava: “Ecco, la libertà”. Il treno sferragliava ritmicamente, come il suo cuore, e sembrava che tutto fosse possibile.

“Ti ricordi quando siamo scappati dalla cena aziendale e siamo andati al parco?” le aveva chiesto lui.

“Certo. E sei stato tu a dirmi che mi avresti sposata anche se fossi diventata una vecchia ronzona,” gli rispose sorridendo.

“Ho detto *se*, non *quando*,” le strizzò l’occhio. Allora le era sembrato uno scherzo.

Adesso, cinque anni dopo, quelle parole suonavano come uno schiaffo.

In cucina c’era odore di polenta bruciata. Sul tavolo, la piastra sporca, i calzini del figlio sotto la sedia, una montagna di piatti da lavare.

“Cristina, quando pensi di lavare i piatti?” le urlò dalla stanza. “Non c’è neanche un cucchiaio pulito!”

Lei si asciugò le mani sul grembiule senza rispondere, prese dal cassetto un contenitore di plastica con su scritto: *Pranzo per domani. Alessandro.* Lo mise in frigo. Come sempre. Solo che quella era l’ultima volta.

Ricordò il volo per Palermo. Seduta accanto al finestrino, mentre lui, al suo fianco, passò tutto il viaggio a guardare serie tv sul tablet. Lei osservava le nuvole sotto di loro: sembravano fiocchi di zucchero. Non disse una parola in due ore.

“Guarda com’è bello,” sussurrò.

“Mmm,” borbottò lui, senza staccare gli occhi dallo schermo.

Al terzo giorno di vacanza andò a giocare a biliardo con un certo Vitaliano, il vicino di stanza, e tornò all’alba.

Una sera tardi, Cristina era in piedi accanto alla lavatrice, piegando il bucato. Dall’altra stanza arrivavano le risate di Alessandro, che guardava un programma televisivo dove la gente urlava, saltava e perdeva soldi. Ascoltava quelle risate e sentiva qualcosa di tagliente che le pizzicava dentro, sempre più forte ogni giorno.

“Io non ti faccio niente di male,” le disse una volta, quando provò a parlargli. “Non ti picchio, non ti tradisco. Altri stanno peggio. Dovresti ringraziare.”

*Ringraziare.*

Quella parola le rimase impressa. Non riusciva a dimenticare quando si era ammalata di influenza, con la febbre a quaranta. Alessandro aveva posato le medicine sul comodino ed era uscito a vedere la partita. Poi, dalla cucina:

“Cristina, non hai fatto la pastasciutta! Che mangiamo stasera?”

Lei tremava di febbre, fissando il soffitto come se potesse risponderle: quando aveva smesso di essere se stessa? Quando era diventata solo una funzione? Cucinare, pulire, sopportare.

Una volta si era guardata allo specchio e aveva visto un viso che non le apparteneva più. Stanco, svuotato, con lo sguardo spento. Dentro di lei solo un’eco: *Devi. Devi. Devi…*

Quella notte tirò fuori un vecchio quaderno con la copertina morbida, dove scriveva poesie da ragazza. La sua calligrafia era diversa: viva, libera, come di chi sogna ancora. Rimase a lungo a fissare quei versi e all’improvviso scoppiò in lacrime. Silenziose, perché nessuno la sentisse. Non per il dolore, ma per lo stupore di aver dimenticato com’era stata.

La mattina dopo mandò il curriculum per un posto da segretaria in una clinica privata. Non era il lavoro dei suoi sogni, ma era fuori casa. Con orari fissi, con altre persone. Con uno stipendio solo suo.

Adesso, davanti ad Alessandro, per la prima volta da anni sentiva di dire la verità. Non a lui, a se stessa.

“Non ci servirai più,” borbottò lui. “Senza di te tutto andrà a rotoli. I figli…”

“I figli sono grandi,” rispose piano. “E vivono già come te. Aspettano che tutto gli cada davanti. Non voglio che mia figlia creda che sia normale.”

Lui tacque, e per la prima volta nei suoi occhi passò qualcosa che somigliava alla paura. Non di perderla, ma di perdere l’abitudine.

“Dove vuoi andare?” chiese rauco.

“Dove nessuno mi chiederà chi cucinerà.”

Cristina uscì in corridoio, indossò il cappotto, prese la borsa che aveva preparato giorni prima. Nella tasca superiore c’era una penna che le avevano regalato i figli. La sfiorò con le dita. Poi uscì.

Fuori l’aria sapeva di asfalto bagnato, di pane fresco dalla panetteria all’angolo, e di libertà.

La prima notte la passò nella nuova casa, su un materassino gonfiabile, sotto una coperta con le macchinine di quando il figlio era piccolo. Le pareti erano vuote, la lampadina senza paralume. Ma anche in quel vuoto c’era più silenzio che a casa. Nessuno che chiedeva, che aspettava, che ordinava.

Si svegliò all’alba, per la prima volta senza sveglia, senza il rumore delle pentole, senza le urla delle partite. Solo silenzio. E una luce soffusa che filtrava dalla tenda comprata in saldo. Era quasi felicità.

Al nuovo lavoro le diedero un computer vecchio e un sorriso sincero, senza pietà. I colleghi erano un gruppo variegato ma gentile. Si confondeva ancora negli orari e nei numeri di telefono, ma qualcuno le spiegava con pazienza, qualcun altro le lasciava una tazza di tè, altri ancora una cioccolatina sulla scrivania. Non conosceva ancora tutti i nomi, ma sentiva che la sua vecchia pelle – la vita in cui era invisibile – si era staccata.

Passò un mese. Alessandro non chiamò. La figlia le mandò un messaggio: *Mamma, sono con te. Dammi tempo.* Il figlio non disse nulla. Era abituato ad averla sempre vicina. Cristina non li incolpava. Avevano il loro dolore. Ma ora aveva la sua verità.

Un giorno tornò dal mercato con unaMentre sistemava i pomodori sul davanzale, sorrise al sole che entrava dalla finestra, sentendo finalmente il sapore della vita che le apparteneva.


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